mercoledì 10 ottobre 2007

Il federalismo e la diversità

E’ il 1992, esattamente 15 anni fa; sul numero 2 di Micromega Gianfranco Miglio, nel corso di una conversazione-articolo con Sergio Scalpelli (disponibile anche su Quaderni Padani n. 64-65, di marzo-giugno 2006) riflette su socialismo e federalismo. Ragionando sulla fine del comunismo sovietico, individua i due capisaldi che hanno portato al fallimento del modello di società ovvero la certezza di un reddito e di un lavoro per tutti e l’eguaglianza tendenziale dei redditi. Due concetti che rappresentano il leit motiv della sinistra di casa nostra che, periodicamente, torna a paventare lo spettro del comunismo collettivista, in apparenza ignara della storia, incapace di capire che il reddito comunque garantito inibisce la spinta a lavorare e produrre così come impedisce agli individui, in particolare quelli dei ceti medio – bassi, come ricorda Miglio, di migliorare il proprio livello di vita, congelando la spinta al guadagno.

Miglio, con lucidità, dichiara che “senza una dose robusta di egoismo, senza la voglia di essere invidiati dal prossimo, non può esservi progresso né sviluppo, ma solo stagnazione economica.” La forma organizzativa che più di altre è in grado di valorizzare l’individuo diventa quella fondata sul pluralismo che culmina nel federalismo; scriveva Miglio “La politica del secolo XXI sarà appannaggio di chi saprà liberarsi dei vecchi miti, affermando una scelta pluralista e federalista, contro l’immobilismo generato dall’idea della prevalenza dell’unità sulla diversità.” La chiave di volta del pensiero federalista è proprio la diversità (o specificità), traduzione socio-politica dei diritti individuali di tipo etnico-culturale che Miglio tradusse con il diritto di “stare con chi si vuole” (e con chi ci vuole), sviluppando così le proprie peculiarità in libere convivenze normate da contratti, superando il concetto di impegno atemporale.

Applichiamo queste riflessioni al sistema fiscale e scopriamo che non c’è federalismo autentico senza federalismo fiscale. Ecco perché parlare di federalismo fiscale a casa nostra, con una carta costituzionale che non è federalista, con un paese che è tuttora fortemente centralista, è quanto meno improprio. Andiamo allora alla fonte del federalismo europeo. Su il Foglio Federale dello scorso 24 luglio, la Confederazione Elvetica ha pubblicato il Rapporto del Consiglio federale sulle ripercussioni dei diversi strumenti della politica europea sul federalismo svizzero (www.admin.ch). Senza entrare nei tecnicismi del documento, nell’Introduzione un paragrafo è riservato proprio alla natura del federalismo svizzero; in esso si descrivono gli elementi centrali di questo sistema che Miglio considerava l’unica forma davvero compiuta di federalismo. Autonomia cantonale (cioè sovranità condivisa) e ampi poteri di partecipazione dei Cantoni alla “determinazione della volontà e all’emanazione di norme di legge della Confederazione” sono il cuore del sistema svizzero.

L’autonomia cantonale, in particolare, si concretizza nella sovranità cantonale, nell’esistenza di una propria Costituzione, di organi eletti autonomamente e soprattutto nella disponibilità di risorse finanziarie proprie, la “famosa” competenza fiscale che fa del federalismo fiscale la discriminante cruciale per riconoscere il federalismo. Nel pur acceso dibattito che da tempo anima la comunità politica elvetica a proposito di un possibile ingresso nella Ue c’è un punto fermo che sembra non poter essere messo in discussione; si tratta dell’autorità dei Cantoni in materia fiscale, un principio sacrosanto e fondamentale che affonda le origini nell’essenza stessa del concetto di federalismo. Nel Rapporto che vi ho citato, al paragrafo 6.4.1, si legge “A differenza di altri stati federali (per esempio la Germania), le imposte costituiscono un elemento importante della competitività dei Cantoni come piazza economica. La concorrenza fiscale è una delle cause dell’onere fiscale relativamente basso vigente in Svizzera. Essa consta di tre elementi portanti: l’autonomia cantonale delle entrate data dalla facoltà di fissare le leggi fiscali, l’autonomia cantonale delle spese data dalla determinazione del preventivo e la perequazione finanziaria compiuta a livello federale, con cui si compensano in parte le disparità cantonali.”

Nei Cantoni svizzeri, dunque, popolo, parlamento e governo deliberano in autonomia sull’imposizione fiscale e sulle spese per la collettività. Il federalismo fiscale, si legge nel Rapporto, è un elemento importante del federalismo elvetico e svolge in esso un ruolo cruciale per garantirne la vitalità. Una convinzione che ha permesso al Consiglio Federale di rispondere con fermezza alla Commissione Europea che in febbraio ha definito ufficialmente illegali i privilegi fiscali concessi alle imprese nei Cantoni, ricordando all’Ue che l’autonomia fiscale è sancita nella Costituzione e che la concorrenza fiscale in atto nella Confederazione ha dimostrato, finora, di funzionare egregiamente. D’altro canto non è certo un caso se nella classifica per Pil pro capite pubblicata su Il Sole 24 Ore dello scorso 20 agosto la Svizzera si piazza saldamente al comando con 49.995 dollari; la classifica, però, ci dice qualcosa di più, ci suggerisce una strada per cambiare; nei primi dieci paesi al mondo, infatti, ben quattro godono di assetto federale; alle spalle della Svizzera ci sono infatti gli Stati Uniti, quarti, il Canada, nono e la Germania decima. (solo per la cronaca, noi siamo 19esimi con 26.095 dollari).

Chiara Battistoni

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